Pubblichiamo, per gentile concessione di Peppino Scarselli, una lettera di Pietro Scarselli datata 11 dicembre 1918. Pietro, tenente d’artiglieria, si trova a Brescia e racconta, in una lettera ai genitori, gli ultimi mesi del 1918. Era nato il 21 agosto del 1896 e aveva ventidue anni.
Genitori miei cari,
E così ricomincerò il racconto promessovi da tanto tempo, perché anche voi possiate gioire con le superbe gioie di vostro figlio il quale si sente ricompensato pienamente dei suoi tre anni di sofferenza. E si eleva sincera l’esclamazione di tutti noi combattenti: Ben valeva l’angoscia di tre anni per raggiungere questo epilogo grandioso! –
Incomincerò… da quando, sul Piave, …volevo rispondere con una lettera al caro papà, il quale me ne aveva inviata una, affettuosa ed accorata, piena di una melanconia commovente. Ero a mensa con gli altri ufficiali della Batteria quando ricevetti la lettera in data 20 ottobre. E appena apertala, fui visto dagli altri con gli occhi irrefrenabilmente inumiditi e più volte interrogato, dovetti rileggere con una gran voglia di piangere, la tristissima lettera nella quale il povero papà si precipitava tanto col suo malumore. Mi accingevo a sviluppargli, subito, il contrario del suo pessimismo con un vigore di speranze nuove ed una potenza di affetti, accresciuto da quell’impressione, allorché, verso le 3, giunse l’ordine famoso atteso con impazienza per venticinque giorni di seguito: l’ordine dell’azione! Tutto era pronto da tempo: più volte noi, per essere prontissimi nell’intervento, avevamo caricato e scaricato le granate a liquidi speciali, e quelle fumogene, credendo alla voce che circolava per qualche bocca, dell’imminente azione. Finalmente, come il Destino volle, ricominciammo: Da lontano, c’invitavano da qualche ora, i bombardamenti dell’armata inglese da est, e dell’armata del Grappa ad Ovest, ma non si vedeva niente, poiché pioveva con una fittissima nebbia. Sparammo uniformando i nostri fremiti a quelli dei cannoni vibranti nello sparo, e continuammo sino a sera inviando salve d’auguri con quelle d’acciaio. Dalla nostra posizione, un capitano del genio che era accantonato con noi, si partì nella notte per raggiungere sulle rive del Piave, presso il ponte della Priula, le altre truppe innumerevoli pronte a gettare i ponti di barche, e lo festeggiammo vivamente insieme ai suoi soldati carichi di pane e di bombe a mano, promettendo di riabbracciarci presso le mura di Conegliano, prima tappa.
Ma non so come, forse perché l’attacco fallisse, forse perché il disegno strategico era così concepito, dopo una notte di veglia, in cui il fuoco rallentò sempre più fino al silenzio, vedemmo tornare all’alba le truppe del genio, stanche ed abbattute, recanti notizie assai deprimenti: «Resistono!» «Son crollati otto ponti con gli uomini» «Due compagnie di arditi sono rimaste al di là» «L’azione è sospesa, è rimandata, è fallita!». Passammo mezza giornata di mutismo e di sconforto grandissimo perché più che mai impreveduto. Nessuno poteva aspettarsi ciò che dicevano poiché eravamo sicuri, matematicamente, della vittoria. Passò tutto il giorno così, e verso le sei di sera, arrivarono altre migliaia di colpi per la nostra batteria, quasi a conferma delle notizie ricevute della resistenza nemica.
Ma la notte storica, grandissima, l’Avvento del Destino italico ci fu. Ed io non posso ricordare quella dal 27 al 28 – tremenda – senza provare un senso di grande fierezza e d’orgoglio, senza dubbio il migliore e più saldo della mia vita guerriera, che mi procura una data da poter conservare nel racconto famoso delle gesta italiane del 1918.
Ero l’ufficiale di servizio della Batteria – «Ufficiale di servizio» in una batteria, è l’ufficiale che deve preparare ogni tiro e rispondere della Batteria nella notte che è di turno – Per conseguenza, deve dormire vestito, in mezzo ai quattro cannoni. Ed andai dunque a sdraiarmi verso le 10 di sera, su di una brandina, con accanto l’inseparabile apparato telefonico. A mezzanotte, fui svegliato di soprassalto, dal fioco “drin drin” dell’apparecchio e ricevetti l’ordine: «La batteria apra immediatamente un fuoco violento sopra Susegana, con shrapnels-granata e granate fino a nuovo ordine». Febbrilmente svegliai i serventi, febbrilmente con la carta ed il rapportatore calcolai la direzione e la distanza, febbrilmente scalai gli alzi, stabilii la cadenza, in un attimo detti l’ordine della prima salva. Da solo, sicuro. Tutta l’artiglieria dell’8^ Armata, finalmente interveniva. Quell’armata che era il fulcro di tutta l’azione, finalmente prorompeva. L’azione precedente era stata un colpo di sorpresa, un aiuto, un appoggio alle altre forze di destra che già erano entrate nella battaglia, ma quella sera era la nostra volta e tutta quella selva di bocche da fuoco, tante volte ammirata e considerata, si risvegliava. All’1 e mezza – ora del parossismo – il Montebello e la pianura erano un’idea Dantesca ! – Da Oriente ad Occidente, da Nord a Sud, tutto all’intorno per l’orizzonte oscuro ed i profili neri dei colli, un lampeggìo vivo e continuo accompagnato dal crepitare altissimo, intenso e squarciante di bocche da fuoco vicine e lontane, costituiva la bufera infernale scatenata dal Dio più potente dell’usuale a sommuovere l’ira italica contro l’abbietta Austria. Non si poteva parlare nemmeno ad alta voce: non si sentiva a due passi ! Per impartire i comandi bisognava ricorrere la telefono ed al fischietto: al centralino, posto sotto un ricovero dal quale si irradiavano le linee al Comando di Gruppo ed ai quattro pezzi. Anche quel piccolo centralino con tutti i suoi fili arricciolati, sembrava – in quella musica tremenda che trasportava la mente nel campo delle fantasie favolose – una misteriosa macchina di morte dove bastasse toccare un bottone per provocare immense esplosioni. Eppure, in quella tempesta che pur provocata dagli uomini, era sovrumana, io piccolo omino in piedi – ero calmo e tranquillo con una posa napoleonica.
Dal centralino dal quale ricevetti l’ordine di far fuoco, comunicai ai quattro pezzi i dati di tiro e poi, questo in mezzo alla batteria che padroneggiavo, soffiavo il mio colpo di fischietto ad ogni minuto ed a quel segnale quattro vampate m’abbagliavano facendo seguire quattro schianti che scuotevano tutto. Nella notte altri fischietti altri comandi si intrasentivano fra i minimi intervalli. Quale maestà ! Bisognava ricercare l’espressione di quel frastuono, e raccogliere tutto il linguaggio agitato di una Nazione: erano imprecazioni di morti, erano sibili di odio erano lamenti di madri, erano scoppi di ira generosa, erano inni di gioia, erano cori di giovani, erano ricordi di vecchi, erano tuoni di minaccia potente e sicura che musicavano la storia, quella notte ! che spingevano con tanto clamore e tanta pompa il Destino verso le rive del Piave sacro !-
E la bufera infernale che l’eco ingrandiva e spandeva per chilometri e chilometri, continuava implacabile, continuava fino alla mattina senza che me ne accorgessi, poiché vivevo con la batteria, poiché volavo con le ore segnate dal mio orologio avvisatore.- Questo era l’ordine del giorno distribuito alle truppe:
« Soldati! E’ venuto il giorno della rivincita decretata da Dio che il nemico non osa più invocare nell’ora del castigo; voluta dalla nostra coscienza di uomini forti ed onorati. Le truppe degli Altipiani hanno già conquistato il Sisemol; quelle italo-francesi del Grappa avanzano impavidi nella zona montana facendo prigionieri e catturando materiali; le truppe italo-inglesi si sono impadronite delle Grave di Papadopoli e ci accompagneranno domani all’assalto.- Il Piave sia passato da voi con fermo cuore con sicuro animo. Questo fiume italianissimo che già protesse e celebrò la nostra resistenza soccorrerà oggi e consacrerà del suo nome la nostra avanzata. Pontieri di antichissima e leggendaria perizia vi prepareranno un incrollabile passaggio. Migliaia di artiglieri e bombardieri carichi di fulminea potenza vi corazzeranno, vi precederanno, vi seguiranno. Nessuna esitazione, soldati, nessun dubbio. Lanciatevi con pienezza di risoluzione giacché il nemico trema. Egli sa di non potervi più arrestare ed ha paura e vorrebbe che voi non lo attaccaste. Voi avete letto i suoi manifestini ingordo e vile, ha paura, ma non si decide a sgomberare perché si sta troppo bene sulla terra d’Italia. Cacciatelo, sbandatelo, inseguitelo, disperdetelo ! Se esso non vuol combattere si arrenda, ceda le armi, alzi le braccia. Ma se esso si opporrà, urlategli col furore di tutte le armi che avete con voi, con la esasperazione di tutti i dolori che la sua brutalità e la sua infamia vi hanno procurato, che non si tratta, non si discute col nemico che occupa i nostri campi e le nostre case. Mazze ferrate, gas avvelenati, moncherini di bimbi straziati, grembi di donne violentate, massacri di innocenti, distruzione barbarica d’ogni cosa innocua, bella ed indifesa: ecco, soldati, il ricordo che si accompagna alla vostra riscossa per la liberazione delle nostre terre. Fu volontà del destino e di valore italico, che il nemico passato una volta il Piave, dovesse ripassarlo in fuga. Soldati, è volontà del destino e del dovere italico che una volta passato il Piave da noi non si ritorni più indietro, ma si vada avanti. Avanti, sempre, con lena e con tutta passione. Un giorno fu motto dell’Italia in pericolo: resistere o morire. »
«Oggi, vigilia d’immancabile clamorosa rivincita, io vi do, miei soldati, un altro motto: vivere per vincere e vincere per non morire. A voi di mantenere e di onorare questo motto, all’Italia di riverirlo per merito vostro.- Il Ten. Generale Gandolfo – »
Ed i soldati vinsero.
Verso l’alba, il Capitano venne a trovarmi in batteria. Buono, con suo accento napoletano mi disse: « Né, Scarse’, se vada a durmì. Se pigli una tazza ‘e café e si cucchi. Poi fra un’ora se ne va a Castelfranco per comprare la robbe pe’ ‘a mensa » «Marsch !»
- Signorsì, Signor Capitano. Ecco gli ordini scritti, ecco quelli che ho eseguito: ho fatto questo.
- Marsch ! Se vada a cuccà…
- Signorsì. Do’ le consegne all’altro ufficiale. »
E me ne andai tutto soddisfatto a riposare nonostante il clamore a cui ormai eravamo abituati. Dalla finestra della casupola dove era il mio giaciglio, vidi, indietro, quattro colonne altissime di fumo, con un nucleo di fuoco nel mezzo. Sobbalzando con tutto il fabbricato, m’accorsi che erano quattro 381, i colossi dell’artiglieria nostra, che lavoravano…
Al ritorno da Castelfranco dove ero stato in camion per acquisti della nostra mensa, scaricai tutta la gloriosa spesa: pollame, pesci, fagioli, verdure, frutta, bottiglie ed ogni ben di Dio; ma mi colpì il silenzio della contrada. Ero assetato di notizie: Ebbene ? « Abbiamo dato la massima elevazione ai nostri pezzi, ma i nostri sono più avanti ed il tiro non si può più fare; Hanno sorpassato Susegana, raggiungono Conegliano ed anche noi altri aspettiamo l’ordine di passare il Piave ».
Splendeva un sole di primavera, quel giorno, e tutta la plaga era baciata da esso nella consacrazione della Vittoria. Spalancammo le finestre di quelle case che dovevano apparire deserte agli occhi del nemico e guardammo, respirando, tutto il nostro fronte. Col della Tombola[1], un colletto che era proprio davanti a noi, coperto di abeti e di cespugli, irto di artiglierie nemiche, cosparso di osservatori, era finalmente libero e noi lo potevamo liberamente additare senza l’ansia di essere scoperti. I borghesi con i fagotti già preparati ritornavano gioiendo; e per le strade, confuse di carriaggi e di file interminabili, le carrette borghesi ritornavano ai casolari, mentre le notizie, sempre migliori, si sovrapponevano a frotte. Ricordai per un momento, la mia entrata in guerra, in Val d’Astico, quando invece torme di borghesi e di truppe mi venivano incontro, allontanandosi… Ma la nemesi storica bilanciava.-
Ormai la grande battaglia aveva dilagato lontano e rumoreggiava cupa e confusa sempre più in là. Il cielo era letteralmente popolato di velivoli che andavano e venivano, ma in terra non c’era più nessuno. D’un tratto, dalle prime linee d’artiglieria eravamo passati [a] imboscati: I grandi fronti nemici crollavano con immensa gloria di tutti.
Verso l’imbrunire, i razzi di segnalazione e d’allarme, divennero per i nostri soldati i primi fuochi d’artificio per i festeggiamenti, e noi ufficiali del Gruppo ci ritirammo presso la mensa per celebrare con un degno pranzo gli avvenimenti. Questo fu il menù del direttore di mensa che tra parentesi ero io: – Sardine, buone per noi, salatissime per gli austriaci – Tagliatelle del Tagliamento in brodo di giuggiole – Pesce dell’imperatore con maionese dell’imperatrice – Pollo catturato ed arrostito dal bombardamento con insalata greco-boemo-croato-iugoslava – Zeppole e marronate austro-ungariche – Vini del Piave – Caffè turco. Anche là risuonarono i miei canti e le nostre risate, con la chitarra suonata dall’ottimo Capitano De Medici della altra batteria.
Il giorno dopo attendemmo con ansia l’ordine di andare avanti: ormai il posto dove eravamo, era ritornato nel normale; il Montello sembrava triste di aver perduto la sua personalità viva che per un anno l’aveva celebrato su tutte le bocche, ed il Piave scorreva ormai mestamente anche lui. Ma non ci tenne nessuno dal correre sui ponti a vedere: la cavalleria passava con i cavalleggeri alquanto inclinati in avanti ed i lancieri seguivano. Sui sette od otto ponti di barche che si potevano scorgere, era una folla, un andirivieni, un tramestio, meravigliosi. Truppe che si dirigevano in avanti e file di prigionieri che venivano dietro.
Gli episodi a cui assistetti furono straordinari, poiché andammo a Susegana che avevamo bombardato per una notte con tanta violenza. Trovammo dei prigionieri nostri, liberati, che scazzottavano senza che nessuno li potesse tenere, entusiasticamente i prigionieri loro, i padroni, gli aguzzini di ieri.- S. Maestà il Re, fermatosi con la sua automobile per lasciar passare i carriaggi delle truppe, aveva gli occhi brillanti di una gioia difficilmente contenuta, mentre la folla grigio-verde lo acclamava. Più in là, il terreno era simmetricamente sconvolto dalle granate; ricordo addirittura di buche e tutto il piano aveva le tracce della devastazione e della lotta; buche, ricoveri squarciati, appostamenti rotti, fucili, baionette, pugnali, scheggie, rottami, cadaveri, vesti, brandelli, ed ogni mal del diavolo. Più in là ancora ritrovammo i borghesi. Tutte donne dal fare untuoso e falso; molte fingevano allegria, alcune erano realmente scarnite ed emaciate, ma ve ne erano delle altre ben vestite, grasse, rubiconde, colorite proprio dei bei pezzi di donne. Parlammo anche con qualche vecchio mormorante e triste che ci raccontò della crudeltà subite massimamente dai tedeschi e dagli ungheresi. Ma guardavano con occhi di odio certe belle ragazze che camminavano a testa bassa sentendosi avvolte dagli sguardi avidi di tanti uomini: « quella “troia” là… Dio la maledica… si sono fatte… volontariamente, per andare in carrozzino con gli ufficiali». «ne ho viste di quelle che magnaveno, bevevano, ma facevano saziare anca…» «mi me vergogno de averle accanto ora; bisognaria rimandarle con lori con tutte le loro pancie, disgraziate» – Eh! caro papà purtroppo la donna è stata sempre l’eterna irresponsabile delle proprie grazie femminee ed ha stabilito prima di qualunque congresso, l’internazionalità dei bei ragazzi….- E ce ne rattristammo anche noi.-
Incontrammo il Sig. Capitano con un ragazzetto, lacero e sbrindellato, dagli occhi vispi e chiari di un caro birichino. Era un soldatino dei nostri del ’99, fatto prigioniero nel giugno, che girava per ritrovare la strada della Patria. Lo riportammo con noi in batteria ed egli ci raccontò tutta la fame che aveva sofferto e le marachelle combinate per cercare talvolta un po’ di polenta. Gli offrimmo una gavetta fumante di pasta e fagioli ed egli vi affondò il muso senza rialzarlo prima di aver visto il fondo. Lo facemmo lavare e tosare e poi gli domandammo cosa fosse prima dell’offensiva « Ero soldato di fanteria ».- Bene ! ora sarai un artigliere e sarai la nostra “mascotte”. E tutto ben vestito a nuovo non si riconosceva più, povero ragazzo !
Dopo altri due giorni di ozio e di attesa impaziente, mentre le notizie si ingrandivano sempre più, ricevetti l’ordine improvviso di partire la sera con tutta la batteria per Brescia. Dico “ricevetti” perché il sig. Capitano con un subalterno aveva “tagliato la corda” per Treviso e l’altro ufficiale era andato in esplorazione verso Conegliano. Ero io solo, ma senza por tempo in mezzo, tirai in due ore tutti i pezzi fuori dagli appostamenti e feci tutto il caricamento delle vetture, in maniera che, con mia grande soddisfazione, potetti partire nell’ora prescritta mentre il Sig. Capitano e gli altri di ritorno, mi sopraggiungevano. Comincia la nostra odissea. Per tutta la notte marciammo, con un po’ di rammarico di non aver passato ufficialmente il Piave anche noi e di non aver raggiunto almeno Udine, come ci aspettavamo. Pazienza ! Ci dirigemmo verso il Trentino: almeno Trento?… Staremo a vedere – Giungemmo all’alba, rumorosamente, a Verona e lì facemmo tappa per un giorno. La sera sapemmo di Trento e Trieste e di Udine liberate. Diventammo pazzi ! E ci abbandonammo naturalmente alla pazza gioia. Facemmo un banchetto storico tutti insieme -…”storico” anche per le mie tasche… – La mattina dopo prendemmo la via per Brescia; ma all’alba sapemmo già dell’armistizio – I soldati, i nostri bravi artiglieri, ci fecero trovare i cannoni e le vetture tutti infiorati ed imbandierati. Completammo i trofei e l’infioramento ed entrammo in Verona per dirigerci verso la strada stabilita. Fu un corso di fiori ! Un’accoglienza memorabile ! E tutta la folla agitando i cappelli ci applaudiva e ci gridava entusiasticamente, mentre frotte di signorine dalle porte e dai balconi ci coprivano di fiori e di bandiere. Nella famosa Piazza delle Erbe, fummo costretti a fermarci, in mezzo a quell’esplosione di rose e di tricolore ed un colonnello volle parlare, gridando “bravi soldati ! bravi, bravi, bravi !” – poi riprendemmo maestosamente il nostro cammino trionfale e per ogni contrada e per ogni paesello, così come era quel giorno tutta l’Italia in festa, fu un agitar di vessilli, di fazzoletti, un gettito di fiori – Dalle osterie e dalle case, i buoni borghesi dispensavano fiaschi di vino per i soldati ed anche per gli ufficiali, e tutti i ragazzini non finivano con i loro gridi petulanti, ad acclamarci e stordirci – Da Desenzano vi telegrafai durante una breve sosta e nella sera giungemmo a Brescia, anch’essa festante di luci e di musiche militari. La mattina dopo avemmo l’ordine di partire per Nozza – così come vi avevo scritto – ma durante il viaggio arrivò altro ordine di spingerci più innanzi possibile. Lo sapemmo molto più tardi, ma eravamo nientemeno diretti in Baviera, presso quei confini, per respingere i tedeschi che avevano sconfinato in barba all’armistizio già concluso con l’Austria. Fu quel viaggio fino a Storo uno dei viaggi lunghi ed inutili, ma uno dei più pittoreschi dei tanti fatti in questo periodo di guerra ! Era il paesaggio lombardo che differiva quasi subito dalla dolcezza delle linee venete; monti, rotondi come pani, o acuti come coni, tutti brulli e sassosi con qualche cipresso isolato simile ai punti esclamativi della propria ammirazione ! Cascate d’acqua regolate da solide costruzioni in muratura, mulini, acquedotti, centrali di forza elettrica. In mezzo a quei monti ! E mentre la strada saliva, formidabilmente scalpellata nella viva roccia, il paesaggio diveniva più suggestivo e più esotico. Ogni tanto da un roccione scosceso si scorgeva una scalinata fitta e ripidissima, protetta da ringhiere, che portava a degli antri scavati più in alto oppure presso torrioni bassi e larghi, orlate di merli e provviste di spechi quadrati tutti all’intorno; erano gli antichi forti di sbarramento (costruiti dopo il ’66) provvisti in qualche punto di strani ponti levatoi. Più in su ancora, quando si cominciava a pensare alle nevi, lo sguardo discese invece presso una conca ripiena di acqua che costituiva il piccolo lago di Idro, che la strada costeggiava dall’alto. La superficie dell’acqua era come se fosse immobile e solo leggermente increspata da minutissime e simmetriche ondine che sembravano la miniatura fatta dalla natura a quel panorama straordinario e incantevole ! Un diffuso colore grigio cinerino confondeva il colore dell’acqua con quello delle pareti pietrose e quello del cielo, in una sola sfumatura di limiti e di luce. Risaltava qualche brillare di lume lontano, e qualche barchetta e qualche casina dalla facciata bianca e dai tetti rossastri.
Verso sera giungemmo a Storo al di là del lago, presso un rialzo spianato tra i monti dove accantonammo i nostri pezzi ed i nostri camions, per riuscire anche noi a trovare un po’ di riposo ed un po’ di respiro. A Storo – strana cosa fra la purezza e la verginità di quei luoghi alpestri – c’erano delle donnine allegre ed incontrammo anche degli ufficiali austriaci prigionieri in divisa nera e chantilly che passeggiavano liberamente. Sopra qualunque cocuzzolo, intanto, delle vicinanze del paese, sventolava una bandiera italiana ! Dormimmo alla meglio e la mattina quando ci apprestammo ad un nuovo modesto desinare all’aperto, sotto ombrose quercie ed ai fianchi di tante montagne, giunse un ufficiale del comando di Corpo d’Armata che ci recò l’ordine di tornare indietro – subito – e prendere alloggi a Ospitaletto, lungo la strada Brescia-Milano.
Come Dio volle, facemmo le dovute tappe a Vobarno, Rezzato e Brescia, giungemmo a Ospitaletto, ma di là – subito pure – fummo diretti al vicino Paderno dove potemmo passare qualche giorno. Lì prendemmo gli alloggi per gli ufficiali e la mensa della mia batteria presso la villa della contessa Odofredi, ed in quella ospitalità signorile ma abbastanza provinciale ed olezzante di “secolo passato”, respirammo un pochino ed io sperai di cominciarvi questo racconto che desideravo farvi pervenire al più presto – Nient’affatto ! dopo due giorni ci dovemmo spostare – partendo in fretta e furia – per Avio – nientedimeno! – nella Val d’Adige. Così rifacemmo una buona parte della strada fatta, con santa pazienza, e nella sera stessa, viaggiando poi tutta la notte, facemmo il centinaio di chilometri per Avio – Lungo la strada, che, prima d’imboccare la valle suddetta, saliva e scendeva in modo ?-tantissimo, incontrammo migliaia e migliaia di prigionieri che scaturivano ancora da “quelle valli che avevano disceso un giorno con orgogliosa sicurezza” senza finir mai; ed erano sporchi, laceri, macilenti, cascanti, e si sparpagliavano a gruppi, a gruppetti, a due, a tre, ad uno, lungo la strada e fuori di essa, dando al pensiero l’immagine di un immenso impidocchiamento di quei luoghi tanto belli. Avevano fame: vidi, mentre si passava per un paesello di cui non ricordo il nome, centinaia di mani tese disperatamente verso una finestra dove una servotta si divertiva a lanciare della galletta muffita. Vidi un giovane fiero, bello, dagli occhi neri e profondi che si dichiarò croato, avvicinarsi ad un nostro camion fermo e domandare ai soldati, abbassando per forza ed a stento quel suo orgoglio, un po’ di pane. Costoro, che non mangiavano più la loro pagnotta perché dovevano darla a quei disgraziati, essendo la pietà più forte dell’appetito, gettarono a questo croato un pezzo di pane che, involontariamente, cadde in terra. Egli, che prese ciò come un atto di dispregio, mi guardò esitante, con uno sguardo pieno di affermazioni tragiche, e poi si chinò senza fiatare a raccogliere dalla polvere della strada…- A tutti, prima ancora che me lo avesse scritto papà, domandavo un cannocchiale, un binocolo Zaiss che avrebbero ceduto volentieri per un po’ di pane, ma erano stati già precedentemente disarmati ed alleggeriti e ciascuno non aveva altro che qualche korona e pacchetti di sigarette egiziane- Ad Avio, dove giungemmo di mattina, vi erano molti altri: passavano degli ufficiali nostri che precedevano le colonne a cui si domandava: Ciao! collega, quanti ne porti? – Ciao, ottomila – Più tardi: Addio, collega! E tu quanti ne porti? – quindicimila – Così a pezzetti e pezzettoni veniva giù l’esercito Austriaco… I creco?-slovacchi, già inquadrati e vestiti presso di noi alla foggia alpina, si scagliavano contro questi pezzenti che conservavano sul beretto il trofeo con una grossa K in mezzo, e strappandolo esclamavano: Kaiser? – Morto! – ed il triste e puzzolente corteo non terminava mai.
Presso un baraccamento fuori Avio v’erano duecento ufficiali prigionieri, viennesi, croati, boemi, ungheresi che passeggiavano torvi e mesti, su e giù entro il limite segnato dal reticolato. Ci avvicinammo, anzi un capitano austriaco ci rivolse gentilmente la parola per pregarci di riscaldargli un po’ di caffè e così attaccammo discorso: si parlò, masticando discretamente la lingua italiana, amichevolmente, deplorando insieme la guerra, la vita militare, i tedeschi di Germania ed il Kaiser! – si commentava con un certo piacere, che se una settimana prima ci fossimo trovati di fronte, ci saremmo uccisi, mentre lì davanti si rideva quasi dimentichi della lunga lotta. Domandai ad uno di essi di Caporetto. E costui rispose di aver preso parte a quell’avanzata inaspettata a malincuore, poiché i Germanici spadroneggiarono subito, e che sul Piave le loro armate erano ubbricache dell’abbondante vino gorgogliato fuori di tutte le cantine. Un altro, dalla voce nasale e sorridente come un usciere che parla al Presidente, mi domandò personalmente: “Perché lei avere distrutto così terribila Riva?” – e siccome confessai che, veramente, non ero stato proprio io, si corresse nell’espressione poiché con “lei” aveva creduto di dire un “loro” generico a tutta l’artiglieria. Un altro ancora parlò delle posizioni dove era stato con i suoi pezzi, e siccome un mio collega era stato proprio in quella stessa posizione, di fronte, quasi quasi a guardarsi bene in viso, si riconobbero. Ciò fece ridere anche quelli che non capiscono un cavolo ed in ultimo, noi, con una certa sfacciata incoerenza, invitammo a pranzo insieme due di quei colleghi… nemici, ma scegliemmo almeno i due più simpatici! – Si sperava da Avio di andare a Trento, ma ci scappammo il Capitano ed io, in automobile, altrimenti non avremmo avuto nemmeno quella soddisfazione – Passammo per la valle Lagarina che tante volte avevo guardato dall’alto di Corna Piana e di Coni Zugna – Entrammo nella graziosissima cittadina di Rovereto, tutta ville ed edifici sontuosi, ma non ci fermammo a lungo poiché non avevamo molto tempo disponibile, e dovemmo perciò rinunziare alla visita di un 420 austriaco portato nella Stazione ed abbandonato dal nemico nella sua ritirata, intatto. Oltre- passammo Colliano (?) e gli altri paesetti sulle sponde dell’Adige, notando i primi borghesi e le innumerevoli bandierine della patria, fatte alla meglio con le carte incollate. Sulle porte v’erano cartelloni con gli scritti: “Benvenuti, fratelli” – “Evviva i liberatori” ! ecc.
Lungo la strada intanto potevamo guardare il materiale abbandonato dal nemico: parchi interi di carri e di cannoni, depositi, magazzini! Fermammo la vettura presso un magazzino di oggetti di precisione, ma era già tutto rovinato e saccheggiato ed il valore complessivo ammontava a qualche milione: alzi, strumenti di puntamento, goniometri, lenti, treppiedi, lampade, aste d’acciaio, misure, ecc. – In un altro scompartimento erano rottami informi e latte di olio e benzina inutilmente sventrate; trovammo vagoni svaligiati, due mitragliatrici, fucili ed ogni razza di roba, ma dovemmo prendere poco con noi e proseguire subito poiché il tempo volava più della nostra automobile.
Giungemmo alla volta di Trento e, sulle porte della città, pensata fin dall’adolescenza come sogno irrealizzabile ed immaginata lungo gli anni della guerra atroce, come lontana ed altissima corona della vittoria, sulle porte di quella città per cui migliaia di giovani erano caduti sui gradini dell’ascesa asperrima, versando il sangue che l’aveva resa sacrosanta alla storia ed alla patria, mi scoprii il capo. – A Trento, a Trento! in quella città che vide scalzo e legato Cesare Battisti, in quella città ripetuta milioni di volte come augurio, come compito, come meta! Non mi sembrava vero. Eppure… è una città come tutte le altre città di provincia, con il selciato di piccole pietre e le case a facciate rosse e gialle, dalle strade discretamente diritte e dai negozi normali.
Pochi giorni prima v’era stato sua Maestà il Re e si vedeva il trionfo dell’italianità in un nuvolo di tricolore combinato con tutte le case colorate di rosso, di bianco e di verde; persino nelle vetrine dei confettieri che avevano collocato le caramelle incartate secondo i tre colori, dentro i vasi di cristallo.- Dappertutto, presso le vetrine e presso i luoghi pubblici, si ergeva un busto di Dante, l’unica manifestazione simbolica dell’Italianità lecita sotto il naso dell’Austria grifagna e si vedevano inoltre gli stemmi dell’aquila bicipite rovesciati ed abbattuti, le vecchie litografie che rappresentano i regnanti ritagliate sul contorno del nostro Re ed esposte. – Chi non aveva avuto la fortuna di possedere quelle, aveva tirato fuori un grosso Umberto I° ed una regina Margherita ritrovate in fondo a chi sa dove. Limpide fotografie del martire Cesare Battisti, cartoline di Roma, tutto quello insomma che poteve significare Italia, Italia, Italia.-
La città sembrava calma e normale, ma non lo era ad una più attenta osservazione. Gli ufficiali marciavano con una certa aria tra il solenne e l’imbecille, le pattuglie battevano il passo con una maestà speciale, le donne erano poche, mal vestite e di colore nero, qualche signorina, qualche studentessa che avevano il passo affrettato, vecchi e ragazzi, né ricchi né poveri guardavano, si fermavano, storditi anche loro mostrando la coccarda, i prigionieri erano rinchiusi nelle stesse caserme dove poco tempo prima erano i padroni: tutto l’insieme dunque non aveva carattere di traffico e di continuità, di affiatamento, ma presentava con evidenza l’inizio della vita nuova. Presso i cartolai le cartoline erano esaurite e per trovare quella che v’inviai, dovetti girare parecchio; in tre giorni, un solo negozio ne aveva smerciate 15.000 ! – Corremmo subito dal monumento a Dante, e lo trovammo superbo, parlante, così come lo avevamo tante volte sentito celebrare e poi ci dirigemmo al castello del Buon Consiglio. Esso è basso e tozzo dal di fuori e provvisto di porte massicce, ma girando dietro e calando per una discesa nel basso cortile, dove c’indicarono il luogo del supplizio di Battisti, il castello ha tutta la paurosa e solenne imponenza dei castelli medioevali. Presso il cortile dunque, un’immensa profusione di corone funebri e di fiori, indicavano il luogo preciso dove Battisti fu strozzato. Le pareti altissime e lisce, provviste di rare finestre e la torre rotonda e merlata contribuivano a renderci oppressi dentro quel sito, lo stato dell’animo nostro che immaginava la triste e tragica scena. Dalla parte opposta ad esse invece un parapetto della strada cittadina in alto, dava agio ai passanti di guardare in giù. Lì dove eravamo noi, la forca si elevò e colà dovrà sorgere il monumento al martire. Notai fra i visitatori, l’on. Podrecca che riconobbi per il pronunziato e caratteristico profilo, ed osservai anche il reggimento di fanteria che presidiava Trento ed il castello: era il 17°.-
Lasciammo Trento al tramonto del giorno, dopo esserci fermati in ultimo presso un sontuoso caffè dove si poteva sorbire… niente, perché era sprovvisto di tutto, e ritornammo ad Avio. Pochi giorni dopo, anche Avio fu abbandonata per marciare alla volta di un Bussolengo qualsiasi, dove siamo rimasti una mattina a lavorare, come tutte le altre volte, per mettere a posto la Batteria, ed andar via infine come zingari, come orda nomade ed irrequieta, senza orientamento e senza scopo – Ci troviamo dunque alle porte di Brescia ora. E, come già vi ho scritto, nutriamo l’illusione di restarvi ed attendere qui il congedo o le licenze. A proposito: le licenze si sono riaperte e sono di 20 giorni; per Gennaio verrò a riabbracciarvi senza dubbio! Ed allora parleremo dell’avvenire e dei tanti progetti buoni che ho in mente – Papà!
Il buon subalterno militare è finito: sono stanco di fare il subalterno con l’abito diagonale, anche se questo mi regala anche un certo taglio elegante; ora voglio essere il tuo subalterno, il vostro subalterno, genitori miei !! Ma la famiglia, che mi sembrerà tanto più cara, dopo tre anni di lontananza ed è stata – nell’attesa affannosa – concepita idealmente, non dovrà essere una… batteria che risuoni di spari, tonfi e trambusti: sarà invece una compagnia, una dolce compagnia – ed io ne sono sicuro ed impaziente: sicuro, dalle lettere tanto buone e care di papà, dalla bontà sublime di mamma che perdona e non perde la sua fiducia; impaziente, perché ho in cuore un’energia disciplinata, un’attività più pura e più alta che mi farà aiutare a voi due. Il tempo mio grigio-verde e tutti i passaggi di stato d’animo, di circostanze, di condizioni, di luogo e d’ambiente, insieme con le crisi risolte con il proprio dolore e con la propria coscienza, mi hanno avvezzo a conoscere la vita nel significato più profondo della parola, mi ha aperto la conoscenza umana, mi ha fatto fabbricare una salda filosofia che sostiene. Il comando inoltre nella Batteria, e la responsabilità – che dalla mia età giovane è stata sostenuta, mi ha abituato ad intuire, osservare, pensare, provvedere, migliorare, perfezionare. Ho avuto sempre in fondo al cammino, che già sapevo lunghissimo, incerto ed anche oscuro, un lucignolo che rappresentava la mia meta: dopo il primo distacco dalla famiglia, dopo aver sanati i rimpianti vivi e prepotenti delle carezze materne, del luogo natio, del focolare domestico, del conforto degli amici, delle abitudini usate, io ho sempre pensato che, dopo un periodo più o meno grande di anni, se la morte in guerra mi avesse risparmiato, io sarei tornato finalmente presso i miei cari, fatto uomo, con la conoscenza delle virtù umane e sociali, a compire il resto della vita mia ed a dare aiuto ai genitori che avevo pur fatto soffrire durante la adolescenza.
Questo tempo aspro è stato non un libro da volgere pianamente(?) per leggervi di giorno in giorno delle pagine, le definizioni degli uomini, le nozioni delle cose, le soluzioni dei problemi, le regole della vita; ma è stato, invece, una grande scuola, una scuola agitata e disordinata (anche se non sono stato sempre sulla linea del fuoco) dove sono andato avanti ed indietro, sulle ali delle crisi, nel mezzo degli inganni, dove mi sono promosso, bocciato e ribocciato e promosso. L’animo ha vibrato per le ansie, per le pene, per nostalgia, per i sacrifici, per i lavori, gli stenti, gli sforzi, le rassegnazioni, le repressioni, i pericoli, le paure: Può aspirare ad essere vostro subalterno, poiché ha subito l’esame e si è corazzato.
Ecco un diploma: ecco la proposta d’avanzamento a tenente che mi fece il Sig. Capitano Brizio della II^ Auto-Batteria. E’ una ricompensa che mi premia, e che ho avuto modo di leggere per la cortese concessione del Sig. Capitano De Falco che ho presentemente «Rapporto informativo sul SottoTenente di complemento P. Sc. – di buona costituzione fisica, nel disimpegno del suo servizio di “comandante di sezione”, ha sempre dimostrato interessamento e buona volontà. E’ intelligente, educato, serio e rispettoso con i superiori… stimato dai colleghi. Ha autorevolezza con gli inferiori, dai quali sa farsi benvolere. Ha buona conoscenza dei regolamenti e delle istruzioni dell’arma. Possiede buona cultura generale. Nella sua condotta privata non ha mai dato luogo ad alcun rimarco(?)» firmato Capitano Brizio. Questo che segue è il rapporto del Capitano De Falco che ha rinnovato la proposta la quale è già partita. Finalmente! «Amato e stimato dagli inferiori per i modi delicati nel comandarli e nel farsi ubbidire, non è mai ricorso alla punizione per far eseguire prontamente ordini emanati. Dal sottoscritto è stimato ottimo ufficiale, di spiccata intelligenza ed educazione. Ufficiale serio e disciplinato, amato dai colleghi e molto ben quotato dai superiori. Ha molta cognizione dell’arma e particolare della specialità. Si rende elemento prezioso perché racchiude tutte quelle doti che si richiedono ad un ufficiale di artiglieria. Nella vita privata si distingue per condotta» «Firmato Capitano De Falco». Pensate se è poco. Del resto ho imparato, fra le tante cose, anche a non insuperbirmi e se vi ho trasmesso testualmente le parole, l’ho fatto più per far piacere a voi che godete della fortuna del vostro figliolo, che per un vanto od una ostentazione indecorosa da parte mia. E per la stessa ragione vi comunico che, essendo io stato due giorni prima dell’offensiva, per tre giorni in prima linea con la fanteria sulle acque del Piave, come osservatore e segnalatore –
ed avendo dimostrato nella notte dell’offensiva, calma e sicurezza al fuoco che dirigevo, sono stato proposto per la croce al merito di guerra, che mi giungerà forse insieme alla promozione a tenente.
Arrivederci miei cari e buoni genitori e scusate anche della lunga chiacchierata e di quella parte confusa del resoconto, ma spero con questa di ricompensare il silenzio di cui vi siete spesso lamentati. Bacioni cari – Vostro Pipì
[1] “Tombola” è forse un cognome, non un oggetto. Si chiama San Daniele Tombola una frazione di Susegana.